La cucina di Lucca
QUALCHE NOTA ANTROPOSTORICA SULLA CUCINA TOSCANA – LUCCA
Testo prof. Franco Cardini
La Toscana “storica”, la Tuscia, è l’area compresa tra l’Arno e il Tevere: diversa dai confini geopolitico-amministrativi cui siamo abituati. Lucca e l’area circostante (la “Lucchesia”; ma anche tutto il nordovest montano e marittimo, dalla Garfagnana alla Lunigiana) sono territori arcaicamente insediati non dagli etruschi bensì dai liguri e poi dai celti: zone che molto risentono della prossimità della Liguria e dell’Emilia, che magari poco sanno di mare ma abbastanza di montagna. Lo si nota subito da un piatto ch’è una “gloria locale” lucchese, per quanto se ne conoscano variabili garfagnine e pistoiesi (appenniniche, quindi). Si tratta dei “necci”, crêpes di pastella sottile ottenuta con farina di grano (ma anche di farro o di castagne), che va leggerissimamente salata e quindi versata su un disco rovente mentre un altro, superiore, si chiude schiacciandolo a forbice (sono i “testi”). In pochi istanti la crêpe è pronta, bollente e flessibile: la si condisce con buona ricotta fresca di capra e la si arrotola “a cartoccio”. In montagna, c’è chi fa i “necci” con la “farina gialla” (di mais). Il vero segreto è la consistenza della pastella.
Lucca è una città aristocratica, fiera della sua indipendenza repubblicana mantenuta fino all’Ottocento: e ha comunicato al suo territorio questa fierezza. Nel triangolo di costa chiusa ad ampio golfo, tra Mar di Liguria e Tirreno, la città “minori” guardano ad essa coma alla loro metropoli meridionale; poi ci sono Parma a nordest e Genova a nordovest. Questa toscanità signorilmente un po’ “tenuta a bada” si riflette sul cibo. I lucchesi amano i primi “asciutti” di sfoglia ripiena; ma li chiamano “tordelli”, con la d (non tortelli né tantomeno tortellini): e nel ripieno, con al carne di manzo e di maiale, le uova e la bietola lessata ci mettono il formaggio parmigiano ed – ebbene sì – la mortadella bolognese.
Altrimenti (ed ecco un altro tratto che per un verso s’imparenta alla non amatissima Pisa, ma per un altro sa di montagna) si passa alle zuppe e/o minestre. Sui primi “brodosi”, gran risorsa per l’inverno (e un tempo per combattere la miseria) ci si scatena. Anzitutto la “farinata”, che a Pisa e a Livorno è più o meno come a Genova una torta di farina di ceci (conosciuta difatti anche come “cecìna”), e che si dice abbia radici marinare e – secondo alcuni – addirittura arabo-berbere (il hummus, i falafel), mentre a Lucca è il risultato sapientissimo di un bollito di fagioli borlotti freschi conditi di cotenna di maiale e ben insaporiti con sale, pepe e abbondante olio extravergine prima di esser guarniti di verdure (aglio abbondante, cavolo nero, patate, carote, sedano, “odori” – cioè rosmarino, basilico, prezzemolo); poi, sul composto che bolle, si versa a pioggia la farina di mais e si mescola di continuo per impedir che si aggrumi. Sulle quantità e i tempi di cottura ogni cuoco e ogni cuoca hanno i loro segreti: ma qui siamo in piena abilità artigiana. Si va “a occhio”, “a gusto”, “a fantasia”. E’ il bello della grande cucina di casa.
Parallela alla farinata, c’è la minestra di farro: per quanto impazzi l’eterna discussione su quale delle due sia la primogenita. Gli ingredienti sono più o meno i medesimi: ma in più qua ci s’imbatte nella salvia, nella cannella, in un paio di pomodori maturi e quanto ai fagioli si possono usare anche quelli secchi (fatti rinvenire almeno una nottata). Il farro va lavato almeno un’ora, quindi fatto cuocere in poca acqua (quasi tostare) in un tegame e ovviamente aggiunto per ultimo.
Ma queste sono minestre popolari. Se volete andar sull’aristocratico c’è la zuppa dei signori tre-quattrocenteschi di Lucca, i Guinigi. La “marmugia del Guinigi” è nome misterioso: lo si avvicina a “marmitta”, ma anche al “marmorino”, cioè allo stucco ottenuto mischiando polvere di marmo e calce. Qui si lavora di fino, anzitutto con verdure pregiate: una cipolla tagliata finissimamente e imbiondita, alla quale si mischiano quindi con gentilezza punte di asparagi, piselli, pancetta di maiale macinata. Il tutto va fatto rosolare almeno una mezz’ora a fuoco medio aggiungendo brodo vegetale e servito quindi su crostoni di pane tostato. Il mio angelo custode cuciniero lucchese, Paola Menon, arricchisce il tutto con minuscole polpettine di macinato mischiate con parmigiano e uovo “a legare”.
Poi ci sarebbero i dolci: la “crème-caramel alla Puccini” o magari il “buccellato”, una treccia dolce aromatizzata all’anice che ci arriva dritta dall’Antica Roma. Ma non si può dirvi tutto: vi lasciamo al piacere del viaggio e della sorpresa.