La cucina di Arezzo
QUALCHE NOTA ANTROPOSTORICA SULLA CUCINA TOSCANA – AREZZO
Testo prof. Franco Cardini
Ad Arezzo, la città della misteriosa Chimera, D’Annunzio dedicò i primi quattro sonetti della collana La città del silenzio, in un tempo – oltre un secolo fa – nel quale in effetti l’invadente turismo che riempie la Toscana d’oggi era inimmaginabile. Eppure, ancor oggi, a parte il richiamo degli affreschi di Piero della Francesca o l’autunnale kermesse della Giostra del Saracino, la città che Dante aveva descritto come abitata da “bòtoli ringhiosi” è restata in disparte, sfiorata ma non investita dal flusso del turismo mordi-e-scappa, isolata tra la pianura afosa e un tempo paludosa della Chiana e i boschi del Casentino, con il Trasimeno che brilla in lontananza e le belle Siena e Perugia che “da sempre” minacciano di assalire il suo territorio. E’ stato detto che Arezzo è toscana nella stessa misura in cui Perugia è umbra, e che in fondo le due città potrebbero scambiarsi di regione senza perdere i loro connotati: lo si vede bene a Cortona, che è un po’ il risultato di questa vicinanza, di questa struggente “contaminazione”. Il triangolo Arezzo-Siena-Perugia è una specie di subregione a parte, che sfuma tra Toscana ed Umbria con un forte aroma del vicino Lazio. Questo teorema si potrebbe adeguatamente svolgere ragionando appunto di cibo. E di vini.
Tutte le città sono strettamente collegate al rispettivo territorio: è lapalissiano il dirlo. Tuttavia Arezzo lo è in modo particolare. Dopo la bonifica della Valdichiana, e con il Trasimeno che si va prosciugando, la sua vecchia cucina ricca di pesce di lago e di palude e di cacciagione si è andata perdendo, mentre la varietà delle zuppe e delle minestre che per secoli hanno attutito l’antica fame dei contadini si è andata stemperando in una serie di varianti poco diverse tra loro, “panzanelle” (che in qualche ristorante sono ormai etichettate, in modo che fa un po’ sorridere, come Tuscan Bread Salad) un tempo inventate principalmente per smaltire il pane raffermo (dal momento che “quanto alla roba da mangiare, non si butta via nulla”) e “acquecotte”. Nella cucina di Arezzo, nella quale convergono tradizioni e materie prime provenienti dalle bassure chianine e dalle alture casentinesi, primeggiano i prodotti semplici e di ottima qualità, come i prosciutti stagionati e i salumi essiccati (con qualche sperimentazione interessante nel campo di quelli cotti e addirittura affumicati), nonché le carni – anche selvaggina: il cinghiale vi ha un ruolo di spicco, al quale si sono ormai aggiunti capriolo e perfino cervo – nelle tradizionali cotture alla brace e al forno e nelle non meno tradizionali preparazioni dello spezzatino e dello stufato nelle quali rispetto al medioevo sono magari diminuite le spezie ma si è aggiunto il pomodoro, mentre costante resta il vino. Una florida attività tradizionale ma anche innovativa ha riqualificato tutto il settore degli affettati-insaccati raggiungendo livelli molto alti per qualità e varietà, nonché quello dei formaggi con l’annessa gamma dei mieli, delle salse di frutta e di verdure, delle mostarde. E ormai anche i vini e gli oli aretini hanno raggiunto livelli che non hanno più nulla da invidiare a quelli, più famosi, del Fiorentino, del Senese e di Lucchesia.
Ma la regina della tavola aretina, per quanto si faccia un po’ più rara data la lunghezza della preparazione e forse i pregiudizi dietetici è la “scottiglia”. Uno stufato lentissimo, che dev’essere preceduto da marinate sapienti delle carni – nel limone, nell’olio, nell’aceto, nel vino – e che conosce una varietà infinita di preparazioni quanto alla base (in genere un soffritto d’olio extravergine, d’aglio e di “odori” tra i quali prevalevano alloro e dragoncello) cui si aggiungono aglio, cipolla, patate, carote – qualcuno ama metterci anche rape, o mele, o pomodori pelati e pestati, frutta secca o fresca minutamente tagliata o pestata al mortaio; poi occorre una buona quantità di vino rosso (si usa in genere Chianti o anche semplicemente Sangiovese), a proposito del quale non si deve cedere alla taccagna dicerìa secondo al quale il vino usato per cucinare può essere anche di qualità mediocre. Non dico di usare le grandi annate, però migliore è il vino più ragguardevole il risultato.
E poi, le carni, che vanno aggiunte alla composta d’olio, vino e verdure . La scottiglia è un cacciucco di terra: come tale è nato senza dubbio per utilizzare, mediante lunghe cotture e abili condimenti, anche carni fino a un certo punto di scarto: che cominciavano a invecchiare, ch’erano di animale vecchio e quindi un po’ dure eccetera. Esattamente come il cacciucco preparato appunto con quel che restava in fondo alle reti. Una volta si attingeva per farlo soprattutto al cortile: il che significava che la scottiglia arcaica era essenzialmente pollo, papero, anatra, coniglio; varianti di cacciagione come lepre e magari cinghiale dovettero entrarci per tempo; il cinghiale dovette aprir la strada al maiale, che poi vi entrò alla grande (ma attenzione, ché il maiale d’un tempo era molto più selvatico e affine al maiale di quanto oggi non si sia abituati a pensare). Mi sembra di poter dire che cappone e tacchino erano evitati e che no si usava aggiungere al composto certi tipi di caccia avicola (starne o fagiani). Rigorosamente esclusa la carne di asino e di cavallo, il consumo della quale in Toscana non era del resto frequente come in altre regioni. Infine sono arrivati i bovini: vitello e manzo, tanto più diffusi quanto più si sono moltiplicati gli allevamenti da macello, un tempo non diffusi.
Anche la discussione sull’esito della pietanza, sul suo carattere di “stufato” o di “spezzatino”, continua a generare polemiche: in linea di massima si dovrebbe optare per la seconda di tali scelte, vale a dire preparare la scottiglia in recipienti meglio se di coccio ma a fuoco vivo lentissimo e a chiusura non ermetica. Casi di scottiglia passata al forno o cotta in tegame rigorosamente chiuso (quindi “stufata”) sono ormai comunque frequenti e l’uso li ha legittimati.
Insomma, più che una pietanza la scottiglia è un rito, come la preparazione del portentoso medicinale a base di carne di serpenti, la teriaca, che un tempo era gloria della farmacopea della Serenissima repubblica di San Marco. Diciamo che gustare una buona scottiglia è una fortuna; partecipare alla sua preparazione un raro privilegio, che può condurre a una perfetta esperienza.